L’altra metà della luna….. le donne nell’universo mafioso

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L’altra metà della luna. Ecco come sono immaginate le donne nell’universo mafioso. Nascoste. Silenziosamente devote. Vestali di un focolare che ha quale unico compito quello di generare future braccia e future menti per rafforzare le compagini mafiose. Come la parte posteriore della luna, le donne non si devono vedere e non si devono sentire. La storia ci ha fornito solo pochi esempi di donne che hanno saputo “ribellarsi” alla voluntas della famigghia e di aderire ad un infame quanto peccaminoso “patto con lo Stato”. Ribellarsi, significa abbracciare una nuova vita che a sua volta porta con sé la rinuncia alla normalità e anche agli affetti più cari. Che nel peggiore dei casi, finiscono per dissolversi in un bagno di sangue.

La storia di Lea Garofalo è paradigmatica, come anche quella di Rita Atria: donne coraggiose che hanno saputo ribellarsi ma che hanno pagato con il sangue la loro scelta. Lea, morta per aver denunciato la faida tra la sua famiglia e quella del compagno Carlo Cosco. Rita, per aver lasciato la famiglia di mafia ed essersi ribellata ad un credo fatto solo di sangue, ha deciso di suicidarsi qualche giorno dopo la strage di via D’amelio perché oramai sola e senza la paterna protezione che le discendeva dal rapporto filiale che aveva instaurato con Paolo Borsellino, che l’aveva indotta a collaborare con la giustizia.

Dopo il funerale civile di Lea Garofalo, è tornato d’impatto questo tema, la concezione della donna nell’universo mafioso. Legata ad arcani schemi, che la costringono a non pensare con la propria mente ma a farlo secondo i dettami del pensiero mafioso che inducono l’uomo ad impugnare un’arma per lavare via l’oltraggio subito o per affermare la propria potenza e il proprio “io”. Sono anime che convivono costantemente con l’idea di una morte come soluzione o liberazione da tutti i mali o da tutti i problemi. Donne che scelgono di suicidarsi, diversamente da Rita Atria, per lavare via un’offesa arrecata all’onore.. come la storia, triste e drammatica, di Vincenzina Bagarella, afflitta dal dolore di sentirsi menomata per non aver dato un figlio al marito, il perfido Leoluca Bagarella cognato di Totò Riina.

Il pentito Tony Calvaruso, che ha fornito alle autorità inquirenti i risvolti di quella morte avvenuta nel 1995, aveva detto che la donna si sentiva vittima di una punizione divina per non aver avuto mai la gioia di un figlio, a causa delle azioni scellerate e nefande del marito. Speculare alla vita di Vincenzina, ma in una prospettiva positiva era quella di Ninetta, moglie di Totò Riina che invece aveva dato quattro figli al boss stragista corleonese e tutti quanti perfettamente nutriti di quel verbo che serve per giustificare le azioni di un padre che ha dichiarato guerra allo Stato. Ninetta, rappresenta la vestale di un focolare chiuso da sguardi che non possono e non devono entrare. Proteggere i figli e il nome del loro padre rappresenta per lei una missione che nel chiuso della loro villa nel palermitano ha svolto con perfezione e maestria. I risultati di questo lavorio mentale hanno prodotto i frutti sperati. Perché ho fatto questo excursus di  donne e madri di mafia? Perché voglio focalizzare l’attenzione su una giovane vita che oggi ha deciso di parlare e di denunciare il sistema mafioso. Se è vero che il focolare materno è il luogo privilegiato per allevare le nuove leve mafiose, è anche vero il contrario. Cioè che la vita di una famiglia mafiosa può anche portare il figlio a ribellarsi e a denunciare senza però subire eventi negativi per sé o per i propri cari.

Denise, la figlia di Lea ne è un chiaro esempio. La forza che ha saputo vincere sulla mafia che ha si è slegata da quello schema per costruire la speranza di una vita semplice,  lontana dal timore della morte e dall’ orrore che si porta con sé. Sul solco dell’esempio di una madre che ha saputo denunciare la faida familiare, Denise costituisce una speranza per quei giovani , e sono ancora tanti, legati alle famiglie che sul malaffare fondano i loro affari. E le loro stesse vite. Sta mutando il ruolo delle donne e dei loro figli, spesso poi scelti dai padri e mariti per portare avanti i loro affari. Se devoti a quel credo, possono costituire la spinta affinché la famiglia cresca e si ramifichi sul territorio. Se si ribellano, perché incapaci nel guidarla o peggio ancora “capaci” di ragionare e comprendere che il loro destino potrebbe fare rima con la parola morte, vengono annientati e con loro viene annientata la speranza di scardinare una mentalità. La crescita e l’affermazione della pianta del malaffare si coniuga con la concezione di una famiglia sempre unita  e radicata in quei valori, è la culla in cui si crea un legame prima biologico poi di sangue per effetto di un giuramento. Le donne sono l’anello di congiunzione e tramite la loro mediazione e la loro educazione crescono coloro i quali dovranno perpetrare e trasmettere a loro volta quei valori, all’infinito. Smetterà questa catena, quando le donne, piuttosto che rimanere silenti sapranno ribellarsi e educare i loro figli al senso vero della legalità e della onestà. Con esempi di donne che hanno dato la loro vita per questo, come ha fatto Lea e come ha fatto Rita. Ripristinare la pianta della legalità nel giardino della famiglia, per concepire un mondo più vero e pulito.

Nel loro nome, nel nome di Lea, di Rita, di Maria Concetta, forse è possibile.