La morte di Brittany Maynard, la ventinovenne americana malata di cancro al cervello che ha scelto di morire tramite il suicidio assistito, riapre il mai sopito dibattito sull’eutanasia.
In Italia, le associazioni che lottano per il diritto alla Dolce Morte li chiamano “gli esuli del suicidio”: essendo l’eutanasia illegale in Italia, infatti, coloro che questa soluzione devono recarsi all’estero, ad esempio in Svizzera, dove la morte volontaria assistita è legale dal 1942.
Un gesto estremo, una scelta perpetuata da chi altra scelta non ha, se non quella di decidere di morire senza sofferenza. Un atto basato sul principio democratico fondamentale, quello della libera scelta: l’idea che il cittadino sia libero nelle sue opinioni e nel suo voto presuppone che egli sia anche sovrano in una sfera privata, dove i suoi valori di coscienza sono insindacabili; ma anche sul principio di dignità, ovvero la possibilità di poter vivere una vita degna e indipendente, senza pesare sui propri cari.
I numeri parlano chiaro: ogni anno i malati terminali che decidono consapevolmente di violare la legge italiana per garantirsi una morte rapida e indolore sono in continuo aumento. Secondo l’associazione Exit Italia – che si batte da sempre contro l’accanimento terapeutico per il diritto all’eutanasia – solo nel 2013 sono cresciuti del 34 per cento.
In italia fecero discutere alcuni casi: nel 2006 fu Piergiorgio Welby, militante Radicale e co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, affetto da distrofia muscolare che lo costringeva immobile e incapace di parlare – ma sempre completamente lucido – a richiedere il riconoscimento del diritto all’eutanasia tramite una lettera aperta al neo eletto presidente delle Repubblica Giorgio Napolitano.
Tutti ricordano poi, per le implicazioni etiche e politiche che ha avuto, il caso di Eluana Englaro che, dopo un grave incidente stradale avvenuto nel 1992, era rimasta in stato vegetativo persistente. Fu il padre a richiedere la sospensione dell’accanimento terapeutico, ottenuto nel 2009 dopo una lunga trafila legale.
Fino al clamoroso suicidio assistito di Lucio Magri, lo scrittore, giornalista e fondatore de “Il Manifesto” che nel 2011 a 79 anni, depresso per la prematura morte della moglie, decise di andare in una clinica in Svizzera per morire con l’aiuto di un medico. La Corte suprema elvetica aveva equiparato i gravi disturbi mentali a quelli fisici, aprendo la strada al ricorso del suicidio assistito anche per questo tipo di patologie. Nella sentenza si sostiene appunto che “seri disordini mentali, incurabili e permanenti, possono causare sofferenze simili a quelle fisiche”.
Attualmente le associazioni svizzere che praticano l’eutanasia legalizzata sono tre: la Dignitas di Zurigo, la Ex International di Berna e la Life Circle di Basilea. Si tratta di strutture immerse nel verde, dove i pazienti vengono valutati caso per caso: non è affatto semplice, e non sempre infatti l’iter è possibile.
L’equipe valuta la condizione del paziente e se esistono eventuali altre possibilità prima di compiere il gesto estremo, ma soprattutto deve accertarsi della completa consapevolezza e dell’autonomia di scelta del paziente: la magistratura elvetica, infatti, potrebbe decidere di intervenire nel caso ci sia il sospetto che la morte sia stata provocata per interesse personale ed economico da parte di familiari e che, quindi, ci sia stata un’istigazione al suicidio.
Al paziente spettano scelte difficilissime: scegliere in primis il giorno in cui si vuole morire, poi prepararsi a quel momento in cui gli verrà somministrato un composto chimico a base di potenti barbiturici. Tutto avviene nel giro di pochi minuti, un sonno profondo, seguito subito dopo da arresto cardiaco. Se capace di agire in autonomia, sarà il paziente stesso e somministrarsi il cocktail letale per via orale.
Non sempre è possibile avere accanto i propri cari: i parenti dei malati terminali che accompagnano i loro cari a morire per la legge italiana stanno commettendo un reato, infrangendo l’articolo 579 del codice penale che prevede una condanna fino ai 12 anni per omicidio del consenziente. Chi decide di correre comunque questo rischio deve adottare tutte le precauzioni del caso e non può alloggiare nella stessa struttura del malato.
Un iter difficile, che mette a dura prova e lascia arrivare fino in fondo solo chi è realmente determinato.
Molti sono i motivi per opporsi alla legittimazione della dolce morte: lo stesso Giuramento di Ippocrate esclude esplicitamente l’eutanasia. Per altri l’eutanasia è moralmente inaccettabile, poiché è vista comunque come un tipo di omicidio e l’eutanasia volontaria come un tipo di suicidio. Subentrano così anche ragioni religiose, che considerano il suicidio un peccato gravissimo, un modo di disprezzare il dono più importante di Dio, la vita stessa. Altri mettono in dubbio il principio di piena consapevolezza: l’eutanasia può essere considerata “volontaria” soltanto se il paziente è cognitivamente competente per poter prendere la decisione, e tale competenza può essere difficile da determinare.
Certo è che in Italia sempre maggiore è il consenso riguardo al testamento biologico, nonostante l’immobilità delle istituzioni dinanzi alle undici proposte bipartisan presentate. La mancanza di una legge, certamente, rende tutto più difficile. E anche compilare un foglio che metta nero su bianco la rinuncia all’accanimento terapeutico di fronte a malattie incurabili o a stati vegetativi permanenti potrebbe essere del tutto inutile.
La Fondazione Umberto Veronesi è la prima a permettere ai cittadini di reperire il documento: “Si tratta di un foglio di carta dove sono scritte le ultime volontà sul proprio fine vita. Ogni persona deve tenere una copia per sé e consegnarne un’altra ad un fiduciario. Non avendo valore legale, nessuno ovviamente può garantire che queste volontà vengano rispettate. Tutto è a discrezione del personale medico e dei familiari del malato, che potrebbero opporsi”. “Oggi sono stati fatti molti passi avanti su questo tema, e questo testamento ha acquisito un valore in più rispetto a qualche tempo fa”, spiegano ancora dalla Fondazione Veronesi, “però resta il fatto che la decisione finale spetta ad un medico. Che, se decidesse di staccare la spina, rischierebbe pur sempre una denuncia penale”.