La bara bianca e il suo strumento, il corno. Con questa immagine ci ha lasciati Giovanbattista Cutolo, il musicista ventiquattrenne ucciso a Napoli la notte del 31 agosto. Piazza del Gesù si riempie di persone, tra queste anche qualche turista lì per Napoli e per caso, che sono più o meno la stessa cosa.
Napoli è il caso, Napoli è l’evento improvviso che accade senza cause precise, l’aleatorio che obbligò Achille all’inferno del tallone scoperto. Si dice che prima di morire Napoli vada vista almeno una volta, una volta che valga per sempre e questo perché una vita non può privarsi della meraviglia del Vesuvio che si stende sul mare, dei vicoli Patrimonio dell’Umanità, dei sapori e dell’atmosfera-Napoli, che è un modo diverso di vivere e di stare al mondo.
Eppure, in tutto questo gusto estetico ed empirico insieme, qualcosa pare sempre potersi rompere da un momento all’altro: gioiello dallo splendido valore ma fragile. Quello che cerchiamo di capire è il senso più proprio di questa fragilità: non vogliamo spiegarla – non ne siamo in grado – ma quantomeno dovremmo cercare di comprendere cosa tende ad alimentarla per poterlo eliminare.
PARLIAMO DI MIMESI, ANCORA.
Platone è già un pensatore della mimesis, in un certo senso. Intende l’arte, che è pur sempre una specificità dell’umano, come mimesis, copia del reale, ossia dell’idea. Ed in questo, per Platone, essa è negativa. Già in Aristotele cambiano i connotati: la copia non è il negativo ma è, piuttosto, un modus operandi specifico dell’essere umano. Potremmo dire, forzando i concetti, che una società esiste proprio perché vi è questo sentimento imitativo, che fa gruppo.
Ma quando parliamo di imitazione non dobbiamo soffermarci solo all’apprendimento di comportamenti esterni e, quindi, alla volontà di ripeterli. In questo può venirci in soccorso quanto sosteneva l’antropologo francese René Girard. L’imitazione influenza e riguarda prevalentemente la sfera del desiderio, quindi della volontà. Non è, per questo, semplicemente il tendere a fare cose che qualcuno fa, ma piuttosto una imposizione che determina il nostro modo di desiderare le cose e di viverle.
Girard parla, infatti, di desiderio triangolare, intendendo che noi non desideriamo l’oggetto in sé ma il fatto che esso sia desiderato o posseduto da altri. Ciò che noi desideriamo, quindi, è il desiderante: ossia chi desidera quel determinato oggetto. Cerchiamo qualcuno che sia per noi modello dei nostri desideri, imitiamo il desiderio in quanto chi desidera è, secondo noi, degno di stima.
Il desiderio, qui, si pone in termini generali non solo come sentimento di possedere qualcosa ma anche come l’attuazione di comportamenti volti a raggiungere un determinato stato di cose, volti a dare un certo significato alla propria vita all’interno di una società che consiste in una costellazione di significanti; quindi, di elementi a cui siamo noi ad attribuire un certo valore, ma che non hanno un valore in sé stessi.
Chi voglio essere e cosa devo fare per esserlo? Questa è la domanda che coinvolge il desiderio (come voler imitare il modello, la persona che desidera) e il significante (l’azione che fa sì che io possa essere inquadrato in un certo modo, che io possa avere un certo significato).
PARLIAMO DI AUTORITÀ, ANCORA.
Non vogliamo dilungarci troppo su questo principio: è caro tanto alle scienze (che lo vorrebbero nullo) quanto alla vita quotidiana. Si basa sull’idea che nel momento in cui un’informazione, una notizia o una pratica di vita proviene da una fonte autorevole, importante, essa debba essere sempre presa per vera.
Oggi, sicuramente, le serie tv, il cinema e i mezzi di comunicazione di massa, detengono questo potere, questa autorità, in quanto hanno la capacità di indirizzare i comportamenti e gli interessi delle persone.
In merito al comportamento, il principio di autorità si pone come regola del modello da seguire: tanto più è autorevole la fonte – ed autorevole vuol dire anche che ha un certo peso, un certo impatto a livello sociale e mediatico – tanto più quel comportamento va preso come modello, come oggetto della nostra imitazione.
Iniziano, dunque, ad unirsi alcuni concetti: i modelli, l’imitazione, il desiderio, il significante e l’autorità.
Ed in questa commistione di concetti torna Napoli, i tipi di rappresentazione che di essa si fanno, quelli presi a modello e i fatti di cronaca.
Le rappresentazioni divengono il luogo del desiderio, in quanto hanno una certa autorità. Vengono, cioè, prese come modello da imitare, come regole di comportamento per accedere ad una determinata condizione insieme economica e di prestigio.
Quindi, il desiderio diviene un voler imitare ciò che la rappresentazione propone; e ciò che è proposto diviene modello, in virtù del principio di autorità che viene data a quella rappresentazione, al media che la propone. Dal modello, quindi, scaturisce l’azione che, come dicevamo prima, deve raggiungere un determinato stato di cose, deve cioè soddisfare il desiderio di imitazione, deve riuscire a copiare il modello preso a riferimento: giungere ad avere un certo significato, come dicevamo prima, quindi una certa posizione nella società, un certo valore.
In fin dei conti, dunque, questa analisi intende mettere in discussione il ruolo delle rappresentazioni in quanto autorità, o meglio ancora, del tipo di modello che l’autorità induce a far desiderare. Di fronte al Vesuvio disteso sul mare e ad una bara bianca – immagini che propongono l’ossimoro e la contraddizione – ci viene da pensare che probabilmente si deve fare in modo che il modello cambi, che tramuti in forma nuova. Per far questo è necessario che muti la proposta fatta da chi detiene quel principio di autorità, che muti il modello che i media (serie tv, cinema) e gli strumenti di informazione (tv, telegiornali ecc…) propongono quotidianamente.
Bisogna far sì che il modello, ciò che viene imitato, diventi il musicista e non la sua bara bianca e uno strumento che non può più essere suonato.