Un assassino non ha colori: l’invito alla civiltà allo stadio nel nome di Ciro

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ROMA – Il cuore di Ciro ha smesso di battere qualche giorno fa, in una stanza del policlinico Gemelli di Roma. Cinquantadue giorni di lunga agonia, in cui però è rimasto sempre cosciente, come ha dichiarato Antonella, la mamma  “i momenti di incoscienza di Ciro erano provocati dai sedativi che gli davano per non farlo soffrire, ma non è mai andato in coma, Ciro è stato sempre presente mentalmente”.  Una presenza che forse ha reso ancora più dolorosa – se mai fosse possibile quantificare il dolore di una madre che sopravvive a un figlio –  l’accettazione della morte di Ciro.

Chi era Ciro?  Era un ragazzo nato e cresciuto in uno dei quartieri più difficili d’Italia, Scampia. Quartieri in cui, quando è lì che nasci, non sempre è facile scindere il giusto dallo sbagliato, la morale dall’immorale. Quartieri dove certo, se vuoi puoi scegliere, ma andarsene, voltare le spalle e cambiare è più difficile.  Le prime pagine dei giornali, i blog, i forum in questi cinquanta giorni e più sono stati bombardati di opinioni: c’è chi ha etichettato subito Ciro come “camorrista facinoroso”, chi lo ha invece esaltato come addirittura un eroe. La solita battaglia che rende una persona un vessillo da sventolare, di chi non resiste alla strumentalizzazione per portare avanti un pregiudizio o uno smisurato campanilismo.

Ciro era solo un ragazzo che sicuramente quel giorno non era lì per morire. Che lavorasse,  che avesse o meno il diploma, che frequentasse buone o cattive compagnie non è un discriminante: il sangue è sangue, e il suo sapore diventa ancora più amaro se viene sparso in nome di un odio per il colore di una maglia.

Amore, rispetto e sport: queste le parole pronunciate dalla mamma di Ciro il giorno dei suoi funerali. Un appello  che cela la preoccupazione di una vendetta, perché si sa che l’ odore del sangue arriva alla testa e fa perdere la ragione. Un invito alla calma e a tralasciare ogni intenzione a rendere pan per focaccia, nel nome di Ciro,  affinchè la sua morte non diventi la miccia per innescare altro odio e altra violenza.

Forse è proprio questa la cosa più preoccupante: che ci sia bisogno di appellarsi al nome di Ciro per ricordare la civiltà, come il guinzaglio che trattiene la bestia dall’attaccare. E cosa ci distingue più dalle bestie, quando viene a mancare la ragione? Cosa ci rende ancora umani, quando s’inneggia alla morte? Che sia Ciro o Raciti, il nome non conta: conta il vessillo che diventano: il tifoso e il poliziotto, il nemico o all’avversario. Pretesti per lo scontro, dove non c’entra più il calcio, l’ordine pubblico, il tifo. Conta solo l’odio che sale, che annebbia la vista, che ti porta ad appostarti, aspettare il tuo nemico e colpire. Colpire a far male, con le armi che hai in tasca al posto della sciarpa della tua squadra. E non sei più un tifoso, non sei più un uomo. Diventi bestia ed assassino. E un assassino “non ha colori”, come ha scritto un tifoso della Roma in una lettera aperta al Mattino: “Quel maledetto 3 maggio, quel proiettile ha colpito tutti, anche noi. Oltre al povero Ciro, ha colpito voi, tutta Italia e tutti i tifosi. Ho pianto per la sua morte,  come me hanno pianto tantissimi, forse tutti  i tifosi della Roma. Chiunque abbia premuto quel grilletto non è un tifoso della Roma. È un assassino. Ieri a Napoli un criminale ha sparato ad un ragazzo per un motorino. Se colui fosse, ad esempio, un tifoso interista, colpevolizzereste tutti i tifosi interisti ? Oggi una bella risposta a questo dramma sarebbe un nuovo gemellaggio tra Roma e Napoli.”

Dal 3 maggio ad oggi non si hanno ancora risposte:  nessuna responsabilità, nessuna giustizia che metta un po’ l’anima in pace ai familiari. Intanto un gruppo di qualche migliaio di tifosi del Napoli sui social ha cominciato a ragionare per la prima volta sul tifo ultrà, decidendo di mettere al bando ogni parola denigratoria nei confronti degli avversari. Su Twitter è stato lanciato l’hashtag #NapoliRomaInPace, per sensibilizzare le due tifoserie in vista dei prossimi incontri. Non basterà certo un hashtag, ma è almeno un inizio, un barlume di speranza che prevalga il buonsenso, che non domini la minoranza ignorante e aggressiva sul tifo pulito. Che Ciro non sia il vessillo di nessuna fazione, ma che la sua morte sia un memorandum di civiltà.