Un soldato italiano con la mano destra sull’elmetto e l’altra che impugna l’inseparabile mitraglietta. Sullo sfondo i segni della fresca strage: lo scheletro di una palazzina devastata dalle fiamme, quelle dell’autocisterna esplosa, e i resti accartocciati di chissà quale mezzo irriconoscibile. Polvere e disperazione di una notte italiana nel lontano Iraq immortalati da quello scatto drammatico che parla da sè. Era il 12 novembre del 2003, era il resoconto silenzioso e più tristemente famoso della strage di Nassiriya. Era l’immagine di un Paese in ginocchio, con cui Anja Niedringhaus, la fotoreporter tedesca dell’”Associated Press” vinse nel 2005 il premio Pulitzer.
Ma un Paese in guerra non ha pietà di nessuno, soprattutto se si è occidentali e giornalisti “ficcanaso”. E l’uccisione della Niedringhaus avvenuta ieri mattina in un agguato nell’est dell’Afghanistan, il terzo contro giornalisti di guerra, conferma quanto appena ricordato. Sull’auto su cui viaggiavano la fotografa tedesca dell’AP e una sua collega, la giornalista canadese Khatty Ganon, rimasta gravemente ferita, è stato aperto il fuoco da un uomo vestito da poliziotto. Che l’Afghanistan non fosse di per sè un posticino tanto tranquillo lo sapevamo, ma che la vita fosse diventata estremamente pericolosa nelle ultime settimane lo apprendiamo solo dalle notizie di cronaca all’ordine del giorno.
A pesare su un’aria diventata improvvisamente irrespirabile è il clima di tensione che si è imposto alla vigilia delle elezioni presidenziali. E oggi quel giorno tanto atteso è arrivato. Si temono possibili brogli e nuovi attentati terroristici dei talebani ma si attende anche la fine dell’epoca Karzai e dell’impegno delle forze Nato.
Afghanistan come Paese diviso a metà tra un’inarrestabile tensione che lo attira verso il tradizionalismo più cupo e una spinta all’emancipazione e alla rinascita di una propria identità. Afghanistan come Paese in perenne conflitto con se stesso, la sua storia e la sua cultura.